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http://www.librinlinea.it/search/public/appl/dettaglio.php?bid=RMR0003677
http://www.ilbisonte.it/gallery/mostra_isabella_collodi.htm
"IL LAGO E' SALITO AL CIELO" di Guido Giuffrè

Dire che l’arte è specchio dei tempi vuole qualche precisazione, perché ad assumere l’enunciato assiomaticamente Isabella Collodi sarebbe o fuori dal tempo o fuori dall’arte. La nostra temperie sembra infatti caratterizzata da tutt’altro che dalla fantasia o dai poetici sogni di queste immagini squisite. Il discorso porterebbe lontano. Accantonando il versante dell’estetica (a muovere dalla nota “celia” crociana su che cosa è l’arte), ci si chiede quale sia il tempo cui l’arte si connette, o in qual misura l’uno caratterizzi l’altra. Alma-Tadema era pressoché coetaneo di Cézanne, Chagall lavorò nella stagione di Mondrian, Joe Tilson e Lucien Freud appartengono entrambi alla storia del novecento inglese; oggi operano da noi Guccione e Kounellis. Isabella, per tornare al tema, disegna e incide nel tempo dei successi di Cattelan. Ciascuno – lo dicano i contemporanei o lo dica il tempo – è quello che è: la sua “attualità” altro non è che la sua qualità, il suo spessore. Una volta qualcuno disse che Isabella Collodi non sarebbe stata mai incisore, e aggiunse che i suoi disegni erano per bambini. I fatti dicono che non è così, ma se anche fosse così non sarebbe gran male. Cambiando settore e livello, c’è del vero nelle riserve avanzate su Pascoli o sui crepuscolari, solo che gli argomenti addotti a supporto, più che limitanti sono limitati: Pascoli è anche e soprattutto altro, e così Gozzano. Isabella non va giudicata sugli gnomi e sulle varie creature fantastiche di cui colma i suoi fogli, cioè sui dati del racconto, ma sull’atmosfera incantata, intensamente poetica che ne promana. Si vorrebbe dire di più: intanto che questi fogli, in apparenza di facile approccio, sono in realtà complessi, a muovere dai tempi di lettura. I paesaggi di tante tavole ad esempio di Giovanni Bellini (si parva licet…) vanno guardati, se non con la lente, certo con molto riguardo; se il maestro ha dipinto un sentiero nei campi, e su quel sentiero qualche figura, degli animali, e sullo sfondo case, altane, cortili, il riguardante non può prescindere dal seguire quel sentiero, le figure gli animali le case, una per una. Spendendovi se non lo stesso tempo, certo la stessa cura che vi ha speso il pittore. È facile trarre un’impressione generale dai fogli di Isabella: quasi sempre uno o più personaggi protagonisti in un contesto brulicante di figurine, oggetti, vegetazione; si suole scorgere qualche particolare, si intuiscono abbozzi di sommaria narrazione, se ne coglie l’atmosfera favolistica e incantata – e la lettura è conclusa. È corretto, ma non basta. Resta vero che non sempre è semplice decifrare o decrittare il significato riposto delle varie raffigurazioni, ma i primi passi nella direzione indicata dall’artista è necessario farli. Così, se non è facile, in tanta pittura del passato, scendere al fondo dei significati allegorici voluti dal pittore, pure si coglie egualmente l’essenziale dell’immagine. Per il lettore non è agevole comprendere che cosa i personaggi di Collodi stiano facendo o perché; si direbbe anzi che la stessa artista, in merito, non saprebbe rispondere a domande circostanziate, – non a caso ella afferma che nell’iniziare il paziente lavoro sulla lastra o sul foglio non sa dove andrà a parare, quale sarà il risultato finale. Ma quei personaggi, e il favoloso racconto, la minuzia, l’amore e il piacere con cui sono stati inseguiti, trovati e realizzati, bisogna coglierli. Quando l’amico s’è conosciuto al di là dell’aspetto accattivante, allora egli è veramente amico; i fogli di Isabella si prestano ad esserci davvero amici. Chi, se non gli specialisti, entra nello spirito dell’arte orientale? Eppure da quei segni armoniosi, da quel fluire sinuoso tutti siamo catturati; a ragione Collodi con tanta costanza si dedica a illustrare – a echeggiare con la sua fantasia – i Ching, e una frase dei Ching s’è scelta come titolo di questa nota. Si diceva: il contesto odierno. Certamente oggi sono preponderanti un gusto, una moda, un conformismo dai quali Isabella Collodi è assai lontana. Non lei soltanto. Eppure questa minoranza (non fosse altro per l’esiguo riscontro nei media, nelle grandi rassegne, nel collezionismo) – questa minoranza tiene in vita la voce autentica dell’arte, il suo ristretto ma tenace, irrinunciabile margine di sopravvivenza. In un panorama così controverso l’incisione ha una sua nicchia che insieme la emargina e la difende. Per la complessità dei suoi procedimenti, per le naturali dimensioni ridotte, per lo sguardo attento che richiede, essa non è privilegiata dalla grande esposizione e dal grande consumo. Ma oggi ciò è più fortuna che danno. Essa resta infatti il campo dove meno si registrano degenerazioni e pretestuosità, e dove tenacemente operano talenti pensosi, ostinati, fortemente predisposti – all’ancora di una tradizione forte d’inarrivabili maestri. Isabella ha accantonato alcune delle numerose tecniche incisorie – il bulino, l’acquatinta, la maniera nera – e privilegia l’acquaforte talora unita alla puntasecca. La tecnica nell’immagine si fa linguaggio, e ciascuno sceglie quello che gli è più propizio. Il mondo poetico di Isabella si appaga e insieme si realizza nell’acquaforte, la quale tuttavia (anche se l’artista è ormai maestra nell’uso sempre più sottile di punte e morsure) non è suo mezzo esclusivo. I disegni acquerellati senza in nulla mutare l’approccio a una dimensione fantastica definita da tempo, aggiungono tuttavia qualcosa che in certa misura rimescola le carte: un sovrappiù di poeticità, come se della parola facesse parte ora un’eco, l’alone di una cromia che permea, soffonde e rende ineffabile quanto l’incisione dice con più penetrante nitore. Il racconto dunque, una volta varcata la soglia della fantasia (ciò che avviene non appena Isabella prende in mano la punta o il pennino) sembra procedere per sentieri sempre più remoti dalla realtà nostra quotidiana – ma per attingere, va da sé, un’altra realtà, quella della poesia – non estraniante, non meno nostra, e più consolante. Il soldato sconfitto sull’orlo del prato si arrende ai fantasmi, e questi diventano sogni, maschere aleggianti come farfalle, come le foglie – lettere d’amore – altrove evocate dal flauto dolce di una fanciulla. La fanciulla – alata, perché come tutti i personaggi dell’artista essa è mito non meno che donna – suona a volte la mandola seduta su un tronco a evocare tutto quello che hai smarrito; ma la landa, desolata periferia urbana, è cosparsa di rifiuti, acquitrino dove galleggia ciarpame, resti non smarriti ma abbandonati, da cui le nostalgie rifuggono. In questo foglio Collodi sembra tacitamente collegarsi a un artista di una generazione diversa, Bruno Canova (a lei peraltro sconosciuto), il quale ha anch’egli frequentato codesti spurghi urbani con acuta indagine grafica, non compilatoria ma tagliente, spietata, quanto quella di Isabella è poeticamente cattivante. Gli esempi si moltiplicherebbero quante sono le stampe e i disegni, analoghi ma ogni volta reinventati, mai uguali, perché uguali non sono le foglie dell’albero rigoglioso, anzi della foresta che è l’immaginazione di Isabella. Ma prima di rimandare alle opere va sottolineato un tratto saliente che emerge soprattutto negli ampi spazi del paesaggio: l’erba, i tronchi, le foglie, i riflessi nell’acqua. I labirinti del segno vi si fanno equidistanti dalla natura (tallonata talora con classica e mirabile fedeltà), e dalla pura fantasia, ispirata, astratta, ma non meno reale e coinvolgente. Sono appunto i miracoli di una maestria tecnica e insieme affabulatoria, di un segno esperto che si fa parola sensibile e calda.

 

 

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